lunedì 30 agosto 2010

Il modello gestionale

La critica al modello istituzionale è avvenuta storicamente verso la fine degli anni 60 e si è incentrata inizialmente intorno a due capisaldi: la "socializzazione" e la "gestione sociale".La "socializzazione" innanzitutto che in quel contesto, in quel momento storico era intesa, non come inculturazione, ma come inserimento nel gruppo.La "socializzazione" è il cavallo di battaglia delle scuole per l'infanzia e nidi all'inizio degli anni 70. Nel rapporto adulto-bambino, così come nel rapporto fra pari, viene privilegiata dai fautori di questo modello la dimensione "gruppo".Il bambino viene così a trovarsi in una doppia rete di rapporti: il gruppo degli adulti da una parte, il gruppo dei pari dall'altra. Una impostazione di questo genere in primo luogo pone l'adulto, responsabile del processo educativo all'interno dell'istituzione, in una posizione apparentemente comoda: al riparo sotto l'ombrello della "socializzazione" l'operatrice può legittimamente attendersi che il modello policentrico così definito, prima o poi di per sè partorisca qualcosa di buono per il bambino. La "socializzazione" cioè pare avere una funzione catartica sui vari aspetti della vita del bambino.Tale posizione però è solo apparentemente comoda in quanto che poi, nel grigiore della quotidianità istituzionale, l'adulto oscilla fra una adesione entusiastica al mito della "socializzazione" e la malinconica constatazione che c'è qualcosa che non va, nonostante il superamento dell'assistenzialismo.I giochi, le attività socializzanti intanto durano, soprattutto nei Nidi, pochissimi minuti (l'ombrello della "socializzazione" è cioè troppo stretto), e poi sedimentano una folla di esclusi che è tanto più imponente quanto più enfatizzato è il dato della "socializzazione " .L'enfasi della "socializzazione" in secondo luogo si sposa facilmente con una concezione del rapporto adulto-bambino che, partendo dall'assunto "il bambino deve socializzare", finisce col vedere con sospetto ogni tentativo da lui fatto di mettere in piedi una particolare forma di attaccamento con questo o con quell'adulto (anche particolari legami fra pari vengono visti con sospetto).Ciò fa nascere nella sezione un'aria di asetticità: i rapporti devono essere di tutti con tutti, ogni particolare mozione degli affetti deve essere bandita. Questa anestesia dei sentimenti, coltivata dagli adulti su se stessi innanzitutto e sui bambini poi, è alla base dei metodi usati da molte istituzioni all'inizio degli anni '70. In tutti i casi l'indicazione di fondo era che il gruppo degli adulti doveva rapportarsi in quanto tale al gruppo dei bambini: l'accento era posto non tanto sul singolo, quanto sulla comunità. Il rapporto, scremato di ogni connotato particolare, individuale, doveva essere da gruppo a gruppo. Insieme al mito della "socializzazione" avanzano all'inizio degli anni '70, sull'onda di un organico progetto che tende ad allargare i momenti di partecipazione nella società e nella scuola in particolare, i progetti di attuazione della cosiddetta gestione sociale.La vittoria, che aveva portato nel volgere di pochi anni al nascere delle scuole per l'infanzia e degli Asili Nido comunali, era stata anche la vittoria sulla separatezza delle strutture scolastiche e sulla manipolazione che definiva il rapporto fra queste istituzioni e le famiglie. Perciò la riforma, che sul piano del rapporto con il bambino era approdata alla stesura dei programmi educativi incentrati sul concetto di "socializzazione", sul piano del rapporto con le famig1ie ed il territorio sperimenta la gestione sociale. La consultazione delle famiglie e, in taluni casi, delle forze politiche e sociali (del paese o del quartiere), la delega ai "Comitati" di una parte del potere e della responsabilità, la programmazione della discussione sui contenuti e sui metodi didattici, dovrebbero favorire la cogestione educativa. Ciò che accade è però, tranne qualche rara eccezione, il nascere di una falsa dialettica che conduce o all'ergersi del gruppo delle operatrici in una posizione "pedagogica" nei confronti dei genitori, o, più raramente, ad una contrapposizione fra genitori che usano la gestione come momento di controllo fiscale contro il gruppo di lavoro e le operatrici che si arroccano su posizioni di splendido isolamento. La crisi di un rapporto così concepito appare sempre più evidente col passare degli anni. Il modello gestionale, implica una professionalità dell'operatrice che da una parte comincia a privilegiare il dato educativo sul dato assistenziale, dall'altra pone la gestione sociale al centro del progetto di ridefinizione del proprio ruolo. La nuova professionalità, cioè, si basa inizialmente da una parte su una educatrice che reagisce al clima istituzionale che vuole eliminare idealizzando molto il proprio ruolo, il rapporto "naturale" con il bambino (o meglio con il gruppo di bambini) ed il contesto con il quale la propria istituzione deve interagire. Dall'altra su di un progetto educativo che privilegia la formazione di una identità che, come nel caso della famiglia che mantiene la parvenza di famiglia unita, potremmo definire solo parzialmente capace di andare verso l'autonomia. Una identità, si potrebbe aggiungere, che nasce dalla spontaneità, dalla casualità con la quale si determinano le forme individuali di attaccamento e di relazione fra adulto e bambino, e che perciò finisce col risentire in termini molto pesanti dei meccanismi selettivi usati consciamente o inconsciamente dalle educatrici. E, poiché la selezione, in questo contesto, è un qualcosa che non si misura sui problemi di rendimento ma proprio in termini di suddivisione dell'affetto, vien fuori che i valori di cui l'educatrice e depositaria diventano in maniera del tutto acritica, del tutto casuale, del tutto massificante le ragioni (sconosciute), in base alle quali si definisce una debole identità del bambino. Identità debole poiché il bambino ha come alternativa o lo sforzo di definirsi nel gruppo secondo quelli che lui presuppone essere le aspettative dell'adulto (che solo così è disposto a dimostrare il proprio affetto per lui) oppure essere marginalizzato e quindi nell'impossibilità di definire una propria identità in rapporto a chicchessia.

Tratto da:www.lacosapsy.com/nidi.htm


giovedì 26 agosto 2010

Il modello istituzionale

Il modello istituzionale è un modello che si avvicina a quelli di custodia, di disciplina, d'indottrinamento. Non vi è alcuna preoccupazione per le determinazioni d'ordine sociale che rendono particolare, specifico quel bambino, quel gruppo di bambini. Tutti i bambini sono uguali: le modalità di rapporto sono standardizzate. Le esigenze delle operatrici vengono prima di quelle dei bambini (gli orari, ad esempio, vengono stabiliti in base alle esigenze degli adulti presenti nell'istituzione); ogni volta che c'è un conflitto fra esigenze istituzionali ed esigenze individuali prevale la logica istituzionale (ad esempio se un bambino, o un gruppo di bambini mal si adatta ad un determinato ciclo di alternanze fra veglia e sonno l'operatrice insiste nel mantenere le scansioni temporali programmate costringendo in esse il bambino o il gruppo recalcitrante). Le operatrici lavorano con dei bambini " come se si trattasse di un materiale di lavoro" (Goffman), vi è cioè una oggettivazione del bambino (ad esempio il momento del pasto è organizzato nel grande refettorio - tipico dell'ambiente istituzionale -, le modalità secondo le quali l'adulto aiuta i bambini sono quelle fredde e robotizzate consistenti nel fare il giro da una bocca ad un'altra senza comunicare niente al bambino). L'operatrice è portata ad esprimere giudizi, a porsi, rispetto al bambino ed alle famiglie come entità giudicante (ad esempio affrontare una riunione di sezione come un incontro all'interno del quale vi è una entità - le operatrici - che sa le cose e dà consigli ed una - il genitore - che deve imparare ed eventualmente modificare le proprie modalità di rapporto col bambino in base ai dettati della prima); Il rapporto fra operatrici e genitori, e più in generale fra operatrici e " mondo esterno ", è improntato sulla manipolazione (ad esempio non si riferisce mai alle famiglie quello che è realmente accaduto con il bambino, ma se ne dà sempre una visione edulcorata, manipolata); E in questo contesto istituzionale che nascono quelle che Goffman chiama le "cerimonie istituzionali", e la festa della scuola, in questo clima, può diventare il momento, l'unico momento nell'anno in cui l'operatrice cerca di svestirsi dei suoi panni di staff e di avere un rapporto con la famiglia non più improntato sulla manipolazione.Il punto fondamentale, in questa prospettiva è la totale assenza di intimità fra adulto e bambino, l'assenza di legami stabili ed individualizzati, l'assenza, anche in termini spaziali, di luoghi in cui il bambino possa vivere in un dimensione individuale.L'istituzionalizzazione del bambino avviene, come nelle istituzioni totali, sotto il segno della standardizzazione. L'educatrice per apprendere le modalità di rapporto che sopra ho tentato di riassumere non deve fare un grosso sforzo. Tali modalità infatti sono apprese da ciascuno di noi nei vari ambienti istituzionali che si ha la ventura di attraversare nella propria vita (la scuola, la colonia, la caserma, ecc.) per cui ciascuno di noi ha su di sé le stigmate che rappresentano i segni di tale passaggio. E' per questo che è così facile ritrovare, anche all'interno delle esperienze più avanzate tracce di esso, soprattutto nei momenti più routinari e più scontati.Qualora poi il rapporto fra operatrici ed Amministrazione o direzione pedagogica sia esso stesso improntato sul modello dell'istituzione totale allora è molto facile che un legame di tipo manipolativo fra varie istanze della gerarchia si rifletta poi nel rapporto col bambino e con la famiglia.E' facile capire che questa prima tappa più che definire in positivo un percorso di nuova professionalità può essere vista come un modello negativo di programmazione, come un insieme di cose "da non fare" che in effetti però facilmente è possibile fare.Questo modello perciò può essere considerato come una cartina di tornasole che permette di vedere - a quanti intendano abbandonare i modelli di custodia, disciplina e indottrinamento, - se effettivamente vi è coerenza fra obiettivi e risultati o meno.
Fonte:
www.lacosapsy.com/nidi.htm

martedì 24 agosto 2010

Il modello educativo della scuola di Psicoterapia Funzionale e Corporeo

L'impianto teorico del modello educativo e didattico si basa e fonda le sue radici partendo dal tentativo di integrare il contributo che la Psicoterapia della Gestalt ha dato alla teoria evolutiva con quello dato da Daniel Stern e ripreso in seguito dalla Scuola di Psicoterapia Funzionale e Corporea.Secondo la Psicoterapia della Gestalt il fattore determinante nella crescita del bambino è la relazione io-tu che si instaura tra madre e figlio fin dalla nascita. Nei primi tre anni di vita si forma, attraverso la relazione con la madre, nel bambino la competenza al contatto, cioè la capacità da parte del bambino di instaurare relazioni significative con gli adulti. Perchè avvenga ciò è però necessario che la relazione tra madre e figlio attraversi diverse fasi e momenti ognuna delle quali contraddistinte da competenze relazionale, da parte della madre, differenti e da differenti bisogni relazionali da parte del bambino. Dal modello evolutivo di Daniel Stern e dalla Psicoterapia Funzionale e Corporea si trae l'assunto di base secondo cui dai 0 ai 3 anni il bambino, per poter strutturare il proprio sè in modo funzionale per entrare in relazione sana con l'ambiente esterno, necessita di effettuare alcune esperienze di base fondamentali che vanno a costituire delle vere e proprie competenze relazionali del sè. Ad esempio, il bambino tra i 0 e i 6 mesi necessita di sperimentare, da parte della madre, la sua capacià di accoglierlo, di sostenerlo, di permettergli di lasciarsi andare. Queste esperienze fondamentali per la crescita del bambino diventano in seguito competenze relazionali del sè del bambino. Cioè nella misura in cui egli è stato accolto, sostenuto e gli si è permesso di lasciarsi andare al contenimento della madre, egli da adulto sarà in grado di accogliere, sostenere, permettere ad un altro di lasciarsi andare in modo funzionale. Inoltre, così come detto da Stern e confermato dalle osservazioni sul campo, che non esiste alcuna forma di simbiosi nei primi sei mesi di vita del bambino tra lui e la madre. Il bambino appena nato è dotato di un Sé ben strutturato costituito dal suo patrimonio genetico, dalle esperienze fatte nell'utero della madre, dalla sua fisiologia e dalla sua, anche se frammentata, dimensione corporea. Il suo bisogno non è di avere una relazione simbiotica e fusionale con la madre, bensì quello di avere un adulto che ad ogni modo ed in ogni caso è presente, "attento" a capire i suoi bisogni, i suoi desideri, soddisfacendo quelli funzionali al suo sviluppo ed arginando quelli disfunzionali. Allora il termine confluenza, in un'ottica evolutiva, indica la modalità relazionale che la madre dovrebbe avere nei confronti del bambino e cioè l'essere "attenta" a capire i suoi bisogni e i suoi desideri, il suo essere presente e comunque disponibile nei confronti del bambino e dei suoi bisogni, il suo essere pronta a "confluire", cioè a "fluire con" suo figlio quando e come questi glielo chieda e ne abbia bisogno.

Fonte.www.sicilyweb.com/goccia/ita/8.htm

domenica 22 agosto 2010

L'educatore tra teoria e prassi



Per Borghi si è assistito ad allo sviluppo di approcci descrittivi che hanno prodotto esperienze interessanti anche se frammentarie. Borghi sostiene che le esperienze all'interno del nido non possono essere Theory free ovvero prive di ipotesi a monte, si tratterebbe di azioni casuali e non orientate ad un fine. Un progetto educativo si muove sempre sulla base di un idea o di uno scopo. A volte le esperienze si muovono sulla base di teorie implicite quale idea di bambino, di famiglia e di sviluppo di cui gli attori possono avere più o meno consapevolezza. Si tratta di rispondere nel modo migliore ai bisogni psicologici del bambino, e l'obiettivo è quello di focalizzare alcuni costrutti teorici fondamentali sui quali impostare l'azione quotidiana al nido attraverso l'individuazione di modelli organizzativi rispondenti per quanto possibile ai riferimenti teorici individuati. Es. La teoria dell'attaccamento in relazione alla prima accoglienza facendo riferimento a uno o più autori. Tale impostazione mette tendenzialmente in primo piano l'analisi e le sue scoperte rispetto alla prassi: la ricerca e i suoi esiti rimangono la principale fonte ispiratrice delle azioni che devono essere compiute nell'esperienza completa.
Può anche accadere di avere l'impressione che gli educatori elaborino teorie e modelli in modo un po' personale, che si facciano idee soggettive sullo sviluppo e sui modelli educativi rispetto a ciò che la ricerca evidenzia. In realtà l'azione dell'educatore è il risultato di una combinazione complessa fra le idee, le teorie, le pratiche, i contesti, le condizioni e le occasioni del momento.
Tratto da: Nido d'infanzia 1. di B.Quinto Borghi ed. Erikson

Il modello pedagogico razionale

Questo modello nasce dal bisogno di dare spazio alla sfera cognitiva che era stata marginalizzata.
Alcuni pedagogisti tra i quali Frabboni, Borghi vogliono definire un modello teorico ed operativo che sia di sintesi e integrazione delle molteplici anime teleologiche che si sono avvicendate al nido. Il modello pedagogico razionale e plurilaterale perchè impegnato a dar spazio/forza sia alle finalità di natura bio-fisiologica, psicomotoria, sociale, affettiva ma anche alla sfera cognitiva. Questo modello non mira soltanto alla reciprocità sociale tra nido e territorio (partecipazione dei genitori e delle forze sociali) ma chiede l'adozione di un "curricolo" fondato sui bisogni-interessi reali del bambino sia sui contenuti/strutture cognitive nodali dei tre terreni d'esperienza dell'infanzia 0-3: la corporeità, la comunicazione,la logica. Mondi che riproducono le idee forza che campeggiano nel firmamento della tradizione pedagogica "della materna": il bambino sociale (della comunicazione della Agazzi); il bambino esploratore (della logica della Montessori), il bambino ludico (della corporeità di Froebel).
Tratto da: "Il pianeta nido"per una pedagogia e un curricolo del nido a cura di F. Frabboni ed. La Nuova Italia

venerdì 13 agosto 2010

Gardner e le multiintelligenze

Lo psicologo statunitense Howard Gardner distingue ben 9 tipi fondamentali di intelligenza, localizzati in parti differenti del cervello, di cui fa parte anche l'intelligenza logico-matematica (l'unica su cui era basato l'originale test di misurazione del QI). Ecco, qui di seguito, i 9 macro-gruppi intellettivi:
Intelligenza Linguistica: è l'intelligenza legata alla capacità di utilizzare un vocabolario chiaro ed efficace. Chi la possiede solitamente sa variare il suo registro linguistico in base alle necessità ed ha la tendenza a riflettere sul linguaggio. Possono averla poeti, scrittori, linguisti, filologi, oratori.
Intelligenza Logico-Matematica: coinvolge sia l'emisfero cerebrale sinistro, che ricorda i simboli matematici, che quello di destra, nel quale vengono elaborati i concetti. È l'intelligenza che riguarda il ragionamento deduttivo, la schematizzazione e le catene logiche. La possiedono solitamente scienziati, ingegneri, tecnologi.
Intelligenza Spaziale: concerne la capacità di percepire forme ed oggetti nello spazio. Chi la possiede, normalmente, ha una sviluppata memoria per i dettagli ambientali e le caratteristiche esteriori delle figure, sa orientarsi in luoghi intricati e riconosce oggetti tridimensionali in base a schemi mentali piuttosto complessi. La possiedono scultori, pittori, architetti, ingegneri, chirurghi ed esploratori.
Intelligenza Corporeo-Cinestesica: coinvolge il cervelletto, i gangli fondamentali, il talamo e vari altri punti del nostro cervello. Chi la possiede ha una padronanza del corpo che gli permette di coordinare bene i movimenti. Ce l' hanno in misura peculiare ballerini, coreografi, sportivi, artigiani.
Intelligenza Musicale: normalmente è localizzata nell'emisfero destro del cervello, ma le persone con cultura musicale elaborano la melodia in quello sinistro. È la capacità di riconoscere l'altezza dei suoni, le costruzioni armoniche e contrappuntistiche. Chi ne è dotato solitamente ha uno spiccato talento per l'uso di uno o più strumenti musicali, o per la modulazione canora della propria voce. La possiedono prevalentemente i compositori, i musicisti e i cantanti.
Intelligenza Interpersonale: coinvolge tutto il cervello, ma principalmente i lobi pre-frontali. Riguarda la capacità di comprendere gli altri, le loro esigenze, le paure, i desideri nascosti, di creare situazioni sociali favorevoli e di promuovere modelli sociali e personali vantaggiosi. È presente in maggior misura in politici, leader, imprenditori di successo, psicologi.
Intelligenza Intrapersonale: riguarda la capacità di comprendere la propria individualità, di saperla inserire nel contesto sociale per ottenere risultati migliori nella vita personale, e anche di sapersi immedesimare in ruoli e sentimenti diversi dai propri. Non è prerogativa di qualcuno, benché la possiedano, in particolare, gli attori.
Intelligenza Naturalistica: consiste nel saper individuare determinati oggetti naturali, classificarli in un ordine preciso e cogliere le relazioni tra di essi. È l' intelligenza tipica di biologi, astronomi, antropologi, medici ed altri.
Intelligenza Esistenziale: rappresenta la capacità di riflettere consapevolmente sui grandi temi dell'esistenza, come la natura dell'uomo, e di ricavare da sofisticati processi di astrazione delle categorie concettuali che possano essere valide universalmente. È tipica dei filosofi e degli psicologi, e in parte anche dei fisici.
Sebbene queste capacità siano più o meno innate negli individui, non sono statiche e possono essere sviluppate mediante l'esercizio. Inoltre, esse possono anche "decadere" con il tempo. Lo stesso Gardner ha poi menzionato il fatto che classificare tutte le manifestazioni dell'intelligenza umana sarebbe un compito troppo complesso, dal momento che ogni macro-gruppo contiene vari sottotipi. In ogni individuo ci sono quindi molti tipi di intelligenze che nel corso degli anni si sviluppano diversamente a seconda degli stimoli ricevuti, delle scelte fatte, degli studi effettuati e di altre variabili.
Tratto da: Wikipedia

mercoledì 11 agosto 2010

La pedagogia del sorriso

La pedagogia del sorriso prende origine dalla Clown-terapy, un corpo di volontari che girano intorno al suo fondatore D."Patch" Adams intorno agli anni 70 negli Stati Uniti e che si è sviluppata in Europa solo in seguito. In Italia è presente da circa dieci anni. La valenza positiva del sorriso in relazioni d'aiuto è straordinaria, per questo i volontari di questa associazione girano i luoghi in cui ci sono bambini che vivono deprivazioni affettive e socioculturali e quindi necessitano di affetto e di un clima teso a far nascere un sorriso.
Imparare a prendersi cura dell'altro, sapere costruire un clima di serenità e buonumore teso ad alleviare gli stati d'animo di paura e insicurezza; questi sono alcuni degli obiettivi che questa pedagogia cerca di perseguire tramite l'uso di "giochi" appropriati. Quindi accogliere il bambino con il sorriso che non è solo quello esteriore, ma un sorriso interiore, di accoglienza, di accettazione che porta alla relazione con l'altro.

Tratto da: Modelli pedagogici e analisi del contesto Nido di Rita Zecchin
Corso di specializzazione Spazio Nido Ed. La scuola, Padova 2009-2010